E si intitola proprio così, semplicemente “Balcani” , l’ultimo album di Mauro Conti, cantautore nato Bologna nel 1959, il cui primo incontro con la musica risale durante l’adolescenza, quando grazie all’accompagnamento di un fratello maggiore, inizia ad ascoltare le canzoni di quel periodo. Nel 1977 inizia a suonare la chitarra e si avvicina ancora di più alla musica, scoprendo sia i cantautori italiani, sia la musica internazionale, in particolare il rock incontrando gruppi come Beatles, Doors, Velvet Underground, Hendrix… Assiste poi all’esplosione del Punk e alla nascita del nuovo rock italiano. È in quegli anni che inizia a comporre canzoni per poi, negli anni successivi, dare vita a diversi gruppi di ispirazione new-wave (The Lonely’ Hearts - CastaDiva) con una particolare riflessione ai testi ora scritti in italiano. “1989” è il primo Ep di Mauro Conti: due brani pubblicati in musicassetta che chiudono il periodo dedicato alla musica esplicitamente rock. Nel frattempo, inizia a lavorare come tecnico teatrale, un’ esperienza che lo coinvolge umanamente e gli offre la possibilità in maniera indiretta, di maturare il proprio rapporto con la creazione artistica, non solo in ambito musicale. All’inizio degli anni ’90 si avvicina alla musica blues a cui dedicherà tre lavori anch’essi registrati in studio: Reno Tape Blues – Dall’Apennino al Delta – Vecchie & Nuovi Blues, tutti i brani composti in italiano. La scrittura di nuove canzoni riprende nel 2018, quando l’autore ricomincia a dedicarsi alla composizione, iniziando anche un nuovo progetto musicale, ovvero “The Majakovskj’s Suicide - Hommage a…” Nell’arco di tre anni avviene la registrazione di tre EP che hanno lo stesso titolo, contraddistinti solo da Vol. 1, Vol. 2 e Vol. 3. Dodici brani complessivi che l’autore dedica a dodici diversi autori - scrittori, poeti, musicisti, personaggi letterari, pittori- che lo hanno influenzato a livello artistico e umano.
Nel 2021 registra un nuovo lavoro, “Les Chanson Purque d’Amour.”, cinque canzoni incentrate sulle diverse interpretazioni del sentimento “amore.” Ed ecco il 2024 e la pubblicazione di “Balcani”, undici brani nati dopo un viaggio lungo 5000 km che dai Balcani meridionali arriva a toccare le sponde del Mar Nero e il confine con la Turchia. Per la prima volta, l’autore si dedica solo al canto dei brani da lui composti, collaborando però agli arrangiamenti eseguiti da Raffaele Montanari, titolare dello studio e della relativa casa discografica, PMS Studio.
“Balcani” non rappresenta soltanto un viaggio fisico e reale, compiuto dall’autore nell’estate del 2019 , “Balcani” è infatti soprattutto un percorso, un cammino di ricerca che Mauro Conti ha intrapreso per raccogliere impressioni, sensazioni e stati d’animo, trasposti poi in suoni e colori che, fondendosi con la poesia, hanno trovato nelle canzoni, una forma dai contorni cangianti. Contorni che di fatto segnano una figura ma che, poi, presi singolarmente, raffigurano emozioni fugaci, atte a lambire l’anima per poi rilasciare un’impronta indelebile, simile ai passi compiuti durante il cammino.
Il disco di Mauro Conti si apre con “Il tuffo”, e con un frase che risuona all’interno del brano in modo prorompente: “Non ho fretta”. Fin dalla prima traccia e per tutto il percorso compiuto dall’autore, si avverte questa sensazione di voler a tutti i costi fermare il tempo, desiderando per una volta nella vita di poterlo guardare, osservandone i movimenti per non accorgersi del cambiamento. Il tuffo a cui fa riferimento il brano è quello che gli uomini compiono dall’alto del Ponte Vecchio di Mostar, distrutto nella guerra avvenuta nella fine della Jugoslavia e poi riscostruito. “Non ho fretta” esprime il bisogno di lentezza, di stendersi sulle proprie emozioni, lasciandosi andare ad esse, lasciando che siano loro a guidarci in questo viaggio ad occhi aperti verso terre lontane….Ed ecco che appare “nell’orizzonte un lambo senza tempo…” e quello che avvertiamo è un “corpo vivo che rinasce torna vivo ogni volta che esce…” Un tuffo breve come “un respiro colma la vita e toglie ogni pensiero…” La poesia in questo brano lambisce l’anima accarezzandola, mentre la musica soavemente accoglie un cuore desideroso di calma, di assenza di un tempo avverso per riprendersi il tempo necessario a guardare dentro di sé.
A seguire “Kombanit Stalin”, traccia che presenta una andamento molto leggiadro e dove, alla stregua di una storytelling, abbiamo l’impressione che sia proprio una donna del luogo a raccontare il dramma di questa storia: “se l’amore non ha udito il fragore del naufragare… ha sbattuto l’uscio ed è fuggito al di là del mare, ma io rimango li ad ordinare tutte quante le macerie, e a metter in fila i ricordi e scordare le miserie…” Kombinat Stalin” è un quartiere operaio di Tirana, il quale, dopo chiusura delle due fabbriche lì costruite, ha subito con la fine del periodo comunista, una totale disgregazione sociale. Ed è qui che, come tante persone, si riconosce anche l’autore che ha espresso il suo punto di vista, facendoci sentire il disagio subito interiormente dal singolo ma anche da tutta una comunità ora disgregata, che si ritrova a fare i conti con conseguenze prima inimmaginabili. La piazza di cui parla la protagonista del brano che racconta l’accaduto è il simbolo della totale perdizione di chi tenta di fronteggiare l’incertezza sociale. Una piazza che sanguina appunto, perché non ancora guarita.
Sussurrata con graziosa delicatezza, ecco il terzo brano del disco, intitolato “Lo spazzino di Sarajevo” che racconta il tragico destino di due amici durante la guerra civile, quando i due si trovano sul fronte opposto e uno uccide l’altro: “Sull’ombra del mio corpo ritornato a casa salvo e cerco inutilmente il tuo volto tra la folla, dimentico quel giorno che ti ho ucciso sulla porta e quando ti ho lasciato disteso sulla terra…” Una tragedia che si scatena fuori, ma soprattutto dentro, ed ecco la musica che innalza questo senso si vuoto come la piazza mentre piove e mentre le onde infrangono i ricordi, lasciando che quella piazza diventi un mare di dolore, lasciando che la pioggia scenda come le lacrime. “E sotto questi tetti stamattina bianchi di neve trascino il mio carretto…. il rimorso che contiene…”, dove la neve con il suo candore simboleggia l’innocenza, un tratto in netto contrasto con il sentimento provato ora dal protagonista, con il suo senso di colpa che proprio questi sta provando, facendo smuovere un’anima affranta dal dolore.
“La Casa di Dervisci” è un canto spirituale dove gli archi innalzano un senso mistico ineguagliabile, e dove anche l’anima sembra trovare il suo posto nel mondo: “Sento svanire la mente stanca…” Un luogo sereno dove l’autore sembra ritrovare la pace interiore…un equilibrio nuovo che lo avvolge. Del resto il brano racconta una storia vera, ossia quella di un religioso del 1500 che attraversa i Balcani alla ricerca di un luogo dove erigere un monastero per la propria confraternita e questo cammino di ricerca verso una spiritualità interiore coinvolge in primis anche l’autore.
Allontanarsi da casa è anche allontanarsi da noi stessi, lasciando le discordie, lasciare lo scorie negative per ritrovarsi…” Mare Nero” presenta un ritmo che cavalca le onde mentre guardiamo i giorni naufragati e ritroviamo il tempo per ritrovare anche noi stessi: “Le Assolate ombre hanno bagnato queste sponde…”. Il vento imperversa ma nulla ferma il protagonista (l’autore stesso del brano) in questo viaggio attraversa il mare alla ricerca di una nuova rotta, mentre il passato viene seppellito dal vento , “Come foglie cadute nei giorni di inverno….”
Dal ritmo serrato e travolgente ecco il volo delle “Cicogne”, tipico animale delle zone visitate dall’autore e che egli, osservandone il volo, ne coglie somiglianze con la sua ardita voglia di sorvolare l’infinto, di compiere, come questo, viaggio alla scoperta di se stesso, della propria anima, del proprio Io, alla ricerca costante di un equilibrio interiore, capace di riflettersi sul suo operato. La musica del brano appare riflettere il volo dell’animale , tanto che l’ascoltatore può vedere queste cicogne volar libere nel cielo azzurro “contro il sole disegnando rotte bianco nero e misteriose”. E se in “Il tuffo” si cercava di fermare il tempo, anteponendo la necessità di non avere fretta, ecco che qui, il tempo non è più un nemico, e in risposta a tale miraggio, le cicogne non badano a nessun tempo, il quale appare “quasi morto”, mentre la spensieratezza divampa nel mezzo di un coro goliardico immerso a irrorare di luce e colori il brano.
Ed ecco i “Tuoi lunghi occhi verdi”, un canto d’amore leggiadro e nostalgico, il cui ritmo quasi contrasta con il dolore di chi, deve lasciare la sua famiglia, un brano che affronta l’argomento dell’emigrazione ma soffermandosi soltanto sulle emozioni provate da queste persone il cui amore per la famiglia e per chi devono lasciare, non si estingue, rimanendo lì a scaldare il cuore di chi lo prova. Brano quindi che si lega in modo indissolubile con una canzone nata da una poesia scritta parecchi anni prima dall’autore durante un viaggio in Slovenia “I villaggi ai confini del mondo” che vuole rappresentare la solitudine dei luoghi che hanno subito l’allontanamento delle persone ...La desolazione che avvolge questi luoghi ora silenti. Un movimento lungo e disteso che appare come un ponte che tenta di riunire le persone…un eco che ravvede il suono disperso e lo vuole unire per far riaffiorare i ricordi lontani, mentre un respiro esangue guarda il tempo dilatarsi e guardiamo la desolazione, immobile in una stasi malinconica, mentre i villaggi sono silenziosi come le persone, che hanno perso le parole per colmare il vuoto... La chitarra nel finale spinge un risuono di dolore, di acre nostalgia di un sogno lontano e profondo…
“ Porrajmos” è invece il nome che il popolo Rom dà alla tragedia che l’ha colpito nella Seconda Guerra Mondiale: la deportazione e lo sterminio nel lager nazisti. Una sorta di ninna-nanna che una madre fa alla propria bambina per rassicurarla nell’imminenza della tragedia a cui segue poi la traccia intitolata “Ramo di Quercia” si riferisce a una tradizione serba nell’imminenza della fine dell’anno. Una ballata allegra e spensierata, dal suono vivo e dal ritmo veloce, la gioia che sprigiona il canto “che ammalia… la notte d’inverno sta scivolando via”, perché una gioia nel cuore rimbalza improvvisamente, e niente o nessuno può trafiggere questa gioia.
La tradizione incontra la poesia in questa traccia che ripercorre l’imminente fine dell’anno come è il rituale di quei paesi. Le more, la rosa canina… doni che la tradizione serba riserva per la fine dell’anno come simbolo di rinascita e che l’autore utilizza come senso di pace e di amore verso la propria terra e le persone che la abitano e che lo hanno accolto. E a Concludere il disco “Elegia Balcanica” altro brano che affonda nella tradizione dei “Balcani appunto, una preghiera che i morti innocenti del conflitto rivolgono a sé stessi, nel ritrovarsi nella morte simili e uguali.